Clara Hausberg
Gisela-Gymnasium, München/Germany (2001) on 2020-06-22

Miss Barberini, it was an really interesting article. The article showed your potential for writing and your creativity. You were also able to let the reader know what you want to say and easy to understand at that. As for me, I can comprehend on how boring it can be to stay at home all the time and to get into a fight with ones siblings. The only thing that is not completely positive is that you try to say everything you want to say. Due to that the article is getting really really long and sometimes you drift away from what you actually want to say. But I still like your article very much. You did a great job.

Metafore
by Sofia Barberini (2004) Liceo Sesto Properzio, Assisi/Italy on 2020-06-06



The following article was originally written in Italian, during the Corona lockdown. To read the translations in English, German, French or Spanish, please, scroll down. 

The young lady from Assisi would be very happy to receive your comments. If you are a trait d’union editor, you may use the comment and discussion function next to the article. Otherwise you can send your comment to contributions@traitdunion.online. There you can also send your own ideas and contributions to this frame topic: "Corona - when disaster strikes in our lives: what young people think about the pandemic and its consequences." You can find suggestions on topics and forms of presentation here. If you discover passages in the translations for which you have found a better formulation, you are also welcome to send your suggestion to contributions@traitdunion.online. Thanks in advance!

 

 

METAFORE

 

Eugenio Montale

Meriggiare pallido e assorto

 

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

 

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

 

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

 

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 

“E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la sua vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Nonostante io stessa mi fossi sempre immedesimata molto nelle parole di Eugenio Montale, non ero riuscita a fare altrettanto con gli ultimi versi di “Meriggiare pallido e assorto”, che mi erano parsi fin da subito molto più enigmatici e controversi rispetto a quelli di altri componimenti usciti dalla penna del medesimo autore. Ero incapace di abbracciare la visione che il poeta mi prospettava feriva della vita, descrivendola come il perenne costeggiare una muraglia impossibile da oltrepassare: mai avrei immaginato che quello stesso muro, fonte di mille perplessità sino a quel momento, si trasformasse per me nel perimetro delle mura domestiche in tempo di quarantena.

Come Montale era obbligato a camminare lungo un limite invalicabile, percepito come un presagio di pericolo e sofferenza, così adesso io e tutti i miei contemporanei ci ritroviamo confinati nelle nostre abitazioni, dove troviamo rifugio dalla bufera di contagi del Covid-19. Eppure, rispetto a Montale, dovrei ritenermi fortunata: il muro che mi divide dal resto del mondo non è affatto cupo e impenetrabile, anzi; ha gigantesche porte finestre da cui si può ammirare lo splendore di Assisi, un elegante giardino in cui un vivace bastardino scorrazza dalla mattina alla sera e un televisore col maxischermo come antidoto alla noia.

Ma niente di tutto questo può sopperire alla lontananza dai propri cari, ai compleanni non festeggiati, al ricordo dei mugolii di sconforto durante un compito di Latino, ai mesi passati a pianificare invano la vacanza perfetta, alla mancata prospettiva di rincontrare chi non si vedeva da tanto tempo…

In questo prolungato isolamento ho trovato particolarmente difficile provare a rapportarmi con il mondo esterno, ovviamente in maniera virtuale, senza provare un forte senso di angoscia e oppressione, un misto di disagi e paure che mi portano a vedere il mondo circostante sotto una luce diversa, o, per meglio dire, sotto un’ombra. Sembra quasi che qualcuno abbia applicato un filtro alla realtà, privandola della sua naturale brillantezza, incupendola e rinchiudendola in un perpetuo susseguirsi di azioni monotone e ripetitive, scandite dall’intollerabile ticchettio di un orologio.

Più l’isolamento si protrae, e più la mia rabbia insoddisfatta, che sonnecchia placida nella mia mente, di tanto in tanto si risveglia, sfodera guaina i suoi artigli e li conficca nelle debolezze del malcapitato di turno. La vittima si rivela essere quasi sempre mia sorella, la quale, ferita dal veleno della mia cattiveria gratuita, non stenta a riservare alla sottoscritta il medesimo trattamento, scatenando interminabili litigi destinati a concludersi con la voce autoritaria di mio padre. Dinamiche analoghe sono persino descritte nel celeberrimo romanzo storico “I Promessi Sposi” dal grande Manzoni, il quale, paragonando il beccarsi a vicenda delle teste dei capponi, tenuti per le zampe dal protagonista Renzo, agli uomini che si addossano colpe l’un l’altro, fa presente al lettore come in caso di disgrazia si tenda erroneamente a massacrare un capro espiatorio piuttosto che a collaborare per fronteggiare le avversità della sorte.

È strano come mi sia sempre lamentata di non aver abbastanza tempo per me stessa, divisa, nella vita, tra scuola e famiglia ed ora, quando finalmente mi ritrovo ad avere fra le mani intere ore che prima sentivo scorrer via tra le dita, non abbia la più pallida idea di come impiegarle e mi sorprenda a squadrare annoiata il display del mio smartphone. Spinta dalle esortazioni di mia madre, ho cominciato a sfruttare ogni arma in mio potere, anche la più improbabile, per fronteggiare le insidie della quarantena. Da tre mesi buoni pratico circa cinquanta minuti al giorno di cyclette, che, oltre a rendere doloranti muscoli di cui ignoravo totalmente l’esistenza, riesce a mantenermi attiva e a farmi sfogare la mia dose giornaliera di intrattabilità.

Grazie alla quarantena ho riscoperto, oltre a quello della lettura, anche il piacere della scrittura, dedicandomi alla stesura di alcuni racconti frutto della mia fantasia e, una volta terminati, rilegandoli in carta rigida decorata ad acquerello. Mi sorprende come, impugnata la penna stilografica, tutto il mondo circostante scompaia ed io mi ritrovi, assieme al foglio bianco che l’inchiostro arabesca di nero, in una bolla di placida armonia, in cui il tempo si dilata per permettere il fluire del pensiero. Da piccola un lontano parente mi disse che scrivere era come vivere un’altra vita, ma io non sono affatto d’accordo: scrivere è creare una realtà su misura, essere il burattinaio da cui dipendono le fila del racconto..., scrivere è evadere dalla realtà stessa, apportandole una leggera modifica o stravolgendola totalmente; inoltre credo sia questo ciò che serve per superare un periodo difficile come il nostro.

Quando si è chiusi in casa per un lungo lasso di tempo, poi, si tende ad osservare con attenzione il proprio universo, soprattutto quello interiore, da me molto trascurato perché sottostimato o, molto più probabilmente, perché oltremodo temuto. Affacciandomi esitante al panorama del mio intimo ho scorto proprio ciò a cui ambivo di sfuggire: la ragazza che precipita. Quest’ultima, Marta, è la protagonista dell’omonimo racconto di Dino Buzzati, in cui l’autore sfrutta la metaforica caduta da un grattacielo di una giovane e bella fanciulla per offrire al lettore un piccolo spaccato dell’esistenza umana.

Ancora non mi capacito di come queste appena quattro pagine siano riuscite a farmi realizzare ciò che in ben quindici anni di vita non ero ancora riuscita a capire di me stessa, o forse mi rifiutavo di capire. Ciascuno di noi nella propria vita compie delle scelte, opinabili o meno, da cui dipenderà il suo avvenire ed è proprio in base a quelle stesse scelte che verrà costruito il suo “io” di domani, coi suoi difetti, coi suoi pregi e con la sua personalità. Il grattacielo della vita è un covo di innumerevoli occasioni, che puntualmente Marta si rifiuta di cogliere, per la fretta di raggiungere un obbiettivo impossibile.

Anch’io, come la protagonista del racconto, spesso mi sono rifiutata di interrompere la mia caduta dal grattacielo per assaporare un piccolo drink in compagnia sul balcone opportunità, ho declinato inviti a modeste festicciole che erano solo pretesti per conoscersi, ho ignorato gli avvertimenti di chi mi consigliava di non affrettarmi così, che tanto avrei avuto tutta la vita davanti. Solo ora in bocca sento il fiele del rimpianto: qualcuno sarà di nuovo disposto a fermare il mio folle volo per una serata assieme? Ci sarà ancora un giovanotto alto, bruno, assai distinto, che, guadagnatosi le mie simpatie, allungherà le braccia per ghermirmi? Avrò mai nessuno con cui ridere, smettendo di fluttuare sul precipizio?

Il peso di queste mille domande mi grava sulle spalle, così come quello della neoacquisita consapevolezza di essere proprio io la causa del mio male; sento addosso il respiro ghiacciato della paura, l’unica emozione dinanzi alla quale le certezze vacillano ed i pensieri si affollano nella mente, costringendo chi la prova, per citare Leopardi, ad annegarvi dentro.

“Le opportunità non vanno mai perse, potrebbero non ripresentarsi mai più”, flauta nella mia mente la voce di Petra Conti, prima ballerina del Teatro La Scala. Ho temuto ed in seguito solo dopo realizzato di aver sprecato del tempo prezioso, tempo che avrei impiegato, potendo tornare indietro, uscendo un pomeriggio con i miei amici, al posto di restare a casa pur di non perdere una puntata della mia serie preferita; andando con Marta e Chiara in piscina, invece di inventare una scusa qualsiasi a costo di non far vedere loro le mie gambe grassocce inguainate dagli shorts; imparando il russo  con la mia amica Ala, che troppo spesso riceve da me solo sguardi di sufficienza.

E allora ripenso all’ultima strofa di “Meriggiare pallido e assorto”, alla muraglia che mi aveva tanto perplessa, e d’un tratto realizzo d’esserne stata io stessa l’autrice, di averla edificata intorno a me come uno scudo contro il mondo esterno, contro il giudizio altrui, le sfide di ogni giorno e soprattutto la paura di non essere all’altezza di queste ultime. Rinchiusa tra le mie fidate mura avevo costruito tutto il mio mondo, in cui niente poteva andare storto o risultare errato. Ma quando il mondo, quello vero, si è fermato per un male invisibile, eliminando ogni contatto che tentava di instaurare con il mio piccolo universo, sebbene l’isolamento fosse ciò che avevo sempre desiderato, mi sono sentita persa, spaesata.

Secondo il mio parere la vita non consiste nel costeggiare un muro che ci si illude di non poter oltrepassare, bensì nello scavalcarlo con tutta la forza e la determinazione di cui si è capaci; solo così si sarà in grado di uscire dal proprio angolino sicuro, diventato ormai una prigione, per provare gioie e dolori che l’esistenza ci riserva, come sostiene il celebre scrittore britannico Neal Donald Walsh con la frase ”Life begins when you’re out of your comfort zone”. Scavalcare la muraglia non per trasgredire un divieto, o, peggio, per ostentare la propria forza agli occhi di tutti, ma per imboccare la strada giusta per noi stessi e incoraggiare gli altri a fare altrettanto. Naturalmente non tutti intraprenderemo quest’impervia scalata allo stesso modo: alcuni supereranno il muro con un sol balzo, altri vi si arrampicheranno tremanti e spaventati, altri ancora si affideranno alla solidità di un buon appiglio per facilitare la loro ascesa…. 

Anch’io conto di trovare finalmente l’entusiasmo necessario per superare la muraglia e spero proprio che, ad impresa finita, io sia fiera di esibire alla me stessa che tanto agogno le ferite inflitte da cocci aguzzi di bottiglia.

 

METAPHORS

"And going into the sun that dazzles to feel with sad wonder what his whole life and his ordeal is like in this following a wall that has shards of a bottle on top". Although I myself had always been very much in touch with the words of Eugenio Montale, I had not been able to do the same with the last verses of "Meriggiare pallido e assorto" (Keeping midday rest in the shade, being pale and absorbed), which seemed to me from the beginning much more enigmatic and controversial than those of other works that came out of the pen of the same author. I was incapable of embracing the vision that the poet was giving me of life, describing it as the perennial bordering a wall that was impossible to cross: I would never have imagined that that same wall, source of a thousand perplexities up to that moment, would be transformed for me into the perimeter of the home walls in time of quarantine.

As Montale was forced to walk along an impassable boundary, perceived as an omen of danger and suffering, so now I and all my contemporaries find ourselves confined in our homes, where we find refuge from the storm of contagion of Covid-19. And yet, compared to Montale, I should consider myself lucky: the wall that divides me from the rest of the world is not at all gloomy and impenetrable, on the contrary; it has gigantic French windows from which one can admire the splendour of Assisi, an elegant garden where a lively mutt runs from morning to night and a television with a maxi-screen as an antidote to boredom.

But none of this can make up for the distance from your loved ones, the uncelebrated birthdays, the memory of the mooing of discomfort during a task of Latin, the months spent planning in vain the perfect holiday, the lack of prospect of meeting those who had not seen for so long ...

In this prolonged isolation I found it particularly difficult to try to relate to the outside world, obviously in a virtual way, without feeling a strong sense of anguish and oppression, a mixture of discomfort and fear that lead me to see the world around me in a different light, or rather, under a shadow. It almost seems as if someone has applied a filter to reality, depriving it of its natural brilliance, encasing it in a perpetual succession of monotonous and repetitive actions, marked by the intolerable ticking of a clock.

The longer the isolation goes on, the more my unsatisfied anger, which sleeps placidly in my mind, occasionally awakens, sheaths its claws and shoves them into the weaknesses of the unfortunate on duty. The victim almost always turns out to be my sister, who, wounded by the poison of my gratuitous wickedness, has no difficulty in giving me the same treatment, triggering endless quarrels destined to end with the authoritarian voice of my father. Similar dynamics are even described in the famous historical novel "I Promessi Sposi" (The Betrothed) by the great Manzoni, who, comparing the pecking each other of the heads of the capons, held by the legs by the protagonist Renzo, to the men who blame each other, points out to the reader that in case of misfortune they mistakenly tend to slaughter a scapegoat rather than to collaborate to face the adversities of fate.

It’s strange how I’ve always complained that I don’t have enough time for myself, divided, in life, between school and family, and now, when I finally find myself having whole hours in my hands that I previously felt slipping through my fingers, I don’t have the slightest idea of how to use them and I’m surprised to see my smartphone display bored. Driven by my mother’s exhortations, I began to exploit every weapon in my power, even the most improbable, to face the pitfalls of quarantine. For the past three good months I’ve been practicing about fifty minutes a day on my exercise bike, which, besides making sore muscles whose existence I totally ignored, keeps me active and lets me vent my daily dose of intractability.

Thanks to the quarantine I rediscovered not only the pleasure of reading, but also the pleasure of writing, dedicating myself to the writing of some stories that are the result of my imagination and, once finished, binding them in hard paper decorated in watercolor. It surprises me how, holding the fountain pen, the whole surrounding world disappears and I find myself, together with the white paper that the arabesque ink of black, in a bubble of placid harmony, in which time dilates to allow the flow of thought. When I was a child a distant relative told me that writing was like living another life, but I do not agree at all: writing is creating a made-to-measure reality, being the puppeteer on which the ranks of the story depend..., writing is escaping from reality itself, making a slight modification or totally upsetting it; moreover, I think this is what it takes to overcome a difficult period like ours.

When you are closed at home for a long period of time, then, you tend to observe carefully your own universe, especially the inner one, much neglected by me because it is underestimated or, much more likely, because it is feared. Looking hesitantly at the panorama of my inner world, I noticed exactly what I wanted to escape: the girl who falls. The latter, Marta, is the protagonist of the homonymous story by Dino Buzzati, in which the author exploits the metaphorical fall from a skyscraper of a young and beautiful girl to offer the reader a small cross-section of human existence.

I still don’t understand how these just four pages have managed to make me realize what in fifteen years of life I had not yet been able to understand about myself, or maybe I refused to understand. Each one of us in our own life makes choices, questionable or not, on which our future will depend and it is on those same choices that our "I" of tomorrow will be built, with its defects, its merits and its personality. The skyscraper of life is a den of innumerable occasions, which Marta punctually refuses to grasp, due to her haste to reach an impossible goal.

I too, like the protagonist of the story, have often refused to interrupt my fall from the skyscraper to enjoy a small drink in company on the balcony opportunity, I declined invitations to small parties that were just pretexts to get to know each other, I ignored the warnings of those who advised me not to hurry so much, that I would have had all my life in front of me. Only now do I feel the gall of regret in my mouth: will someone again be willing to stop my crazy flight for an evening together? Will there still be a tall, dark, very distinguished young man, who, having earned my sympathy, will stretch out his arms to greet me? Will I ever have anyone to laugh with and stop floating off the cliff?

The weight of these thousand questions weighs on my shoulders, as does that of the newly acquired awareness that I am the very cause of my evil; I feel the frozen breath of fear, the only emotion before which certainties waver and thoughts crowd into my mind, forcing those who feel it, to quote Leopardi, to drown in it.

"Opportunities are never lost, they may never come again", flutes in my mind the voice of Petra Conti, prima ballerina of Teatro La Scala. I feared and only afterwards I realized I had wasted some precious time, time that I would have spent, being able to go back, going out for an afternoon with my friends, instead of staying at home in order not to miss an episode of my favorite series; going with Marta and Chiara to the pool, instead of inventing any excuse at the cost of not letting them see my plump legs sheathed in shorts; learning Russian with my friend Ala, who too often receives from me only bumptious glances.

And so I think back to the last verse of "Meriggiare pallid e assorto", to the wall that had so perplexed me, and suddenly I realize that I was the author myself, that I had built it around me as a shield against the outside world, against the judgment of others, the challenges of every day and especially the fear of not being up to them. Locked within my trusty walls I had built my whole world, where nothing could go wrong or be wrong. But when the world, the real world, stopped for an invisible evil, eliminating any contact it tried to establish with my small universe, although isolation was what I had always wanted, I felt lost, lost.

In my opinion, life doesn’t consist of walking along a wall that one is under the illusion of not being able to go over, but of going over it with all the strength and determination one is capable of; only in this way will one be able to get out of one’s own safe corner, which has now become a prison, to experience the joys and sorrows that existence has in store for us, as the famous British writer Neal Donald Walsh says with the phrase "Life begins when you’re out of your comfort zone". To climb over the wall not to violate a ban, or worse, to flaunt one’s strength in the eyes of all, but to take the right path for ourselves and encourage others to do the same. Of course, not everyone will undertake this impassable climb in the same way: some will leap over the wall with a single leap, others will climb it trembling and frightened, still others will rely on the solidity of a good handhold to facilitate their ascent.... 

I, too, count on finally finding the enthusiasm necessary to overcome the wall, and I really hope that, when the feat is over, I will be proud to exhibit to myself, who so much yearns for the wounds inflicted by sharp shards of a bottle.

 

METAPHERN

"Und in die Sonne zu gehen, die blendet, um mit trauriger Verwunderung zu fühlen, wie sein ganzes Leben und seine Tortur in diesem Folgen einer Wand, die oben Scherben einer Flasche hat, aussieht". Obwohl ich selbst immer sehr stark von den Worten von Eugenio Montale berühren ließ, war es mir nicht gelungen, dasselbe mit den letzten Versen von "Meriggiare pallido e assorto" (Im Schatten Mittagsruhe halten, bleich und aufgesogen) zu tun, die mir von Anfang an viel rätselhafter und umstrittener erschienen als die anderen Werke, die aus der Feder desselben Autors stammten. Ich war unfähig, die Vision, die mir der Dichter vom Leben schenkte, anzunehmen und beschrieb sie als die immerwährende Grenze zu einer Mauer, die zu überqueren unmöglich war: Ich hätte mir nie vorstellen können, dass dieselbe Mauer, die bis zu diesem Zeitpunkt Quelle von tausend Verwirrungen war, sich für mich in der Zeit der Quarantäne in den Umfang der Hausmauern verwandeln würde.  

So wie Montale gezwungen war, an einer unüberwindbaren Grenze entlangzugehen, die als Omen der Gefahr und des Leidens empfunden wurde, so finden ich und alle meine Zeitgenossen jetzt in unseren Häusern Zuflucht vor dem Ansteckungssturm von Covid-19. Und doch sollte ich mich im Vergleich zu Montale glücklich schätzen: Die Mauer, die mich vom Rest der Welt trennt, ist keineswegs düster und undurchdringlich, im Gegenteil, sie hat riesige französische Fenster, von denen aus man die Pracht von Assisi bewundern kann, einen eleganten Garten, in dem ein lebhafter Köter von morgens bis abends herumläuft, und einen Fernseher mit Maxi-Bildschirm als Gegenmittel gegen die Langeweile.

Aber nichts davon kann die Distanz zu den Menschen, die dir lieb sind, die ungefeierten Geburtstage, die Erinnerung an das Stöhnen unter einer Latein-Schulaufgabe, die Monate, die vergeblich damit verbracht wurden, den perfekten Urlaub zu planen, die mangelnde Aussicht auf ein Treffen mit denen, die man so lange nicht gesehen hatte, ausgleichen ...

In dieser langen Isolation fiel es mir besonders schwer, zu versuchen, mich mit der Außenwelt in Beziehung zu setzen – offensichtlich auf virtuelle Weise – , ohne ein starkes Gefühl von Angst und Unterdrückung zu empfinden, eine Mischung aus Not und Furcht, die mich dazu bringt, die Welt um mich herum in einem anderen Licht zu sehen, oder besser gesagt, unter einem Schatten. Es scheint fast so, als ob jemand einen Filter über die Realität gelegt hätte, indem er sie ihrer natürlichen Brillanz beraubte und sie in eine fortwährende Abfolge monotoner und sich wiederholender Handlungen hüllte, die durch das unerträgliche Ticken einer Uhr gekennzeichnet sind.

Je länger die Isolation andauert, desto mehr erwacht gelegentlich mein unbefriedigter Zorn, der ruhig in meinem Geist schläft, seine Krallen umhüllt und sie in die Schwächen der diensthabenden Unglücklichen schiebt. Als Opfer entpuppt sich fast immer meine Schwester, die, verwundet durch das Gift meiner grundlosen Bosheit, keine Schwierigkeiten hat, mir die gleiche Behandlung zuteilwerden zu lassen, was endlose Streitereien auslöst, die mit der autoritären Stimme meines Vaters enden werden. Eine ähnliche Dynamik wird sogar in dem berühmten historischen Roman "I Promessi Sposi" (Die Verlobten) des großen Manzoni beschrieben, der das gegenseitige Aufpicken der Köpfe der Kapaunen, die vom Protagonisten Renzo an den Beinen gehalten werden, mit den Männern vergleicht, die sich gegenseitig beschuldigen, und den Leser darauf hinweist, dass sie im Falle eines Unglücks fälschlicherweise eher dazu neigen, einen Sündenbock abzuschlachten, als zusammenzuarbeiten, um sich den Widrigkeiten des Schicksals zu stellen.

Es ist seltsam, wie ich mich immer darüber beklagt habe, dass ich nicht genug Zeit für mich selbst habe, geteilt, im Leben, zwischen Schule und Familie, und jetzt, wo ich endlich ganze Stunden in den Händen halte, die mir früher durch die Finger rutschten, habe ich nicht die geringste Ahnung, wie ich sie benutzen soll, und bin überrascht, dass mich mein Smartphone-Display langweilt. Angetrieben von den Ermahnungen meiner Mutter begann ich, jede mir zur Verfügung stehende Waffe, selbst die unwahrscheinlichste, einzusetzen, um den Fallstricken der Quarantäne zu begegnen. In den letzten drei guten Monaten habe ich etwa fünfzig Minuten täglich auf meinem Heimtrainer trainiert, was nicht nur Muskelkater verursacht, dessen Existenz ich völlig ignoriert habe, sondern mich auch aktiv hält und mich meine tägliche Dosis Hartnäckigkeit auslassen lässt.

Dank der Quarantäne entdeckte ich nicht nur die Freude am Lesen, sondern auch die Freude am Schreiben wieder, widmete mich dem Schreiben einiger Geschichten, die das Ergebnis meiner Phantasie waren, und band sie, sobald sie fertig waren, in hartes, mit Aquarellfarben verziertes Papier ein. Es überrascht mich, wie, wenn ich den Füllfederhalter halte, die ganze mich umgebende Welt verschwindet und ich mich zusammen mit dem weißen Papier, das die schwarze Arabesktinte enthält, in einer Blase ruhiger Harmonie wiederfinde, in der sich die Zeit ausdehnt, um den Gedankenfluss zu ermöglichen. Als ich ein Kind war, erzählte mir ein entfernter Verwandter, dass Schreiben wie ein anderes Leben sei, aber ich stimme dem überhaupt nicht zu: Schreiben bedeutet, eine Realität nach Maß zu schaffen, der Puppenspieler zu sein, von dem die Reihen der Geschichte abhängen..., Schreiben bedeutet, der Realität selbst zu entfliehen, sie leicht zu verändern oder völlig umzustürzen; außerdem glaube ich, dass es das ist, was man braucht, um eine schwierige Zeit wie die unsere zu überwinden.

Wenn man zu Hause für längere Zeit verschlossen ist, dann neigt man dazu, sein eigenes Universum, vor allem das innere Universum, sorgfältig zu beobachten, das von mir sehr vernachlässigt wird, weil ich es unterschätze oder, viel wahrscheinlicher, weil ich es fürchte. Als ich zögernd auf das Panorama meiner Innenwelt blickte, bemerkte ich genau das, wovor ich fliehen wollte: das Mädchen, das fällt. Letztere, Marta, ist die Protagonistin der gleichnamigen Geschichte von Dino Buzzati, in welcher der Autor den metaphorischen Sturz eines jungen und schönen Mädchens von einem Wolkenkratzer nutzt, um dem Leser einen kleinen Querschnitt der menschlichen Existenz zu bieten.

Ich verstehe immer noch nicht, wie es mir auf diesen nur vier Seiten gelungen ist, mir klarzumachen, was ich in fünfzehn Jahren meines Lebens über mich selbst noch nicht verstehen konnte oder vielleicht auch nicht verstehen wollte. Jeder von uns trifft in seinem eigenen Leben fragwürdige oder nicht fragwürdige Entscheidungen, von denen unsere Zukunft abhängt, und auf eben diesen Entscheidungen wird unser "Ich" von morgen aufgebaut, mit seinen Fehlern, seinen Verdiensten und seiner Persönlichkeit. Der Wolkenkratzer des Lebens ist eine Höhle der unzähligen Gelegenheiten, die Marta wegen ihrer Eile, ein unmögliches Ziel zu erreichen, nicht ergreifen will.

Auch ich, wie die Protagonistin der Geschichte, habe mich oft geweigert, meinen Sturz vom Wolkenkratzer zu unterbrechen, um in Gesellschaft auf dem Balkon Gelegenheit zu einem kleinen Drink zu haben, ich habe Einladungen zu kleinen Partys abgelehnt, die nur ein Vorwand waren, um einander kennenzulernen, ich habe die Warnungen derer ignoriert, die mir rieten, mich nicht so sehr zu beeilen, da ich ja mein ganzes Leben vor mir hätte. Erst jetzt spüre ich die Galle des Bedauerns in meinem Mund: Wird wieder jemand bereit sein, meinen verrückten Flug für einen gemeinsamen Abend zu stoppen? Wird es noch einen großen, dunklen, sehr distinguierten jungen Mann geben, der, nachdem er mein Mitgefühl verdient hat, seine Arme ausstreckt, um mich zu begrüßen? Werde ich jemals jemanden haben, mit dem ich lachen und aufhören kann, von der Klippe zu schweben?

Das Gewicht dieser tausend Fragen lastet auf meinen Schultern, ebenso wie das des neu erworbenen Bewusstseins, dass ich die eigentliche Ursache meines Übels bin; ich fühle den gefrorenen Atem der Angst, das einzige Gefühl, vor dem Gewissheiten schwanken und Gedanken sich in meinem Geist drängen, die diejenigen, die sie fühlen, zwingen, um Leopardi zu zitieren, darin zu ertrinken.

"Gelegenheiten gehen nie verloren, sie kommen nur vielleicht nie wieder", flötet in meinem Kopf die Stimme von Petra Conti, Primaballerina des Teatro La Scala. Ich hatte Angst, und erst hinterher wurde mir klar, dass ich kostbare Zeit verschwendet hatte, Zeit, die ich damit verbracht hätte, zurückgehen zu können, einen Nachmittag mit meinen Freunden auszugehen, anstatt zu Hause zu bleiben, um keine Folge meiner Lieblingsserie zu verpassen; mit Marta und Chiara zum Schwimmbad zu gehen, anstatt irgendeine Ausrede zu erfinden, um den Preis, dass sie meine fetten, in Shorts gehüllten Beine nicht sehen durften; mit meiner Freundin Ala Russisch zu lernen, die von mir allzu oft nur wichtigtuerische Blicke erhält.

Und so denke ich zurück an die letzte Strophe von "Meriggiare pallido e assorto", an die Mauer, die mich so verblüfft hatte, und plötzlich wird mir klar, dass ich selbst der Autor war, dass ich sie um mich herumgebaut hatte als Schutzschild gegen die Außenwelt, gegen das Urteil anderer, gegen die Herausforderungen des Alltags und vor allem gegen die Angst, ihnen nicht gewachsen zu sein. Eingeschlossen in meinen treuen Mauern hatte ich meine ganze Welt aufgebaut, in der nichts schief gehen oder falsch sein konnte. Aber als die Welt, die reale Welt, für ein unsichtbares Übel stehen blieb und jeglichen Kontakt, der mit meinem kleinen Universum herzustellen versuchte, eliminierte, obwohl Isolation das war, was ich immer gewollt hatte, fühlte ich mich verloren, verloren.

Meiner Meinung nach besteht das Leben nicht darin, an einer Mauer entlangzugehen, über die man sich in der Illusion befindet, nicht hinübergehen zu können, sondern mit aller Kraft und Entschlossenheit, zu der man fähig ist; nur so wird man aus der eigenen sicheren Ecke, die jetzt zu einem Gefängnis geworden ist, herauskommen können, um die Freuden und Sorgen zu erleben, die das Dasein für uns bereithält, wie der berühmte britische Schriftsteller Neal Donald Walsh mit dem Satz "Das Leben beginnt, wenn man aus seiner Komfortzone heraus ist" sagt. Über die Mauer zu klettern, nicht um gegen ein Verbot zu verstoßen, oder schlimmer noch, um seine Stärke in den Augen aller zur Schau zu stellen, sondern um für uns selbst den richtigen Weg einzuschlagen und andere zu ermutigen, das Gleiche zu tun. Natürlich werden nicht alle diese unwegsame Kletterei auf die gleiche Weise angehen: einige werden mit einem einzigen Sprung über die Wand springen, andere werden sie zitternd und verängstigt erklimmen, wieder andere werden sich auf die Solidität eines guten Haltegriffs verlassen, um den Aufstieg zu erleichtern.... 

Auch ich rechne damit, endlich die nötige Begeisterung zu finden, um die Mauer zu überwinden, und ich hoffe wirklich, dass ich, wenn das Kunststück vollbracht ist, stolz darauf sein werde, es mir selbst zu zeigen, die ich mich so sehr nach den Wunden sehne, die mir scharfe Flaschenscherben zugefügt haben.

 

MÉTAPHORES

"Et aller au soleil qui éblouit pour ressentir avec tristesse ce qu’est toute sa vie et son épreuve en suivant un mur qui a des tessons de bouteille sur le dessus". Bien que j’aie toujours étée très proche des paroles d’Eugenio Montale, je n’avais pas pu faire de même avec les derniers vers de "Meriggiare pallido e assorto" (A l’ombre, se reposer à midi, pâle et absorbé), qui m’ont semblé dès le début beaucoup plus énigmatiques et controversés que ceux d’autres œuvres sorties de la plume du même auteur. J’étais incapable d’embrasser la vision que le poète me donnait de la vie, la décrivant comme la pérennité bordant un mur impossible à franchir : je n’aurais jamais imaginé que ce même mur, source de mille perplexités jusqu’alors, se transformerait pour moi en périmètre des murs de la maison en temps de quarantaine.

De même que Montale a été contraint de marcher le long d’une frontière infranchissable, perçue comme un présage de danger et de souffrance, de même maintenant moi et tous mes contemporains nous trouvons confinés dans nos maisons, où nous trouvons refuge contre la tempête de contagion de Covid-19. Et pourtant, par rapport à Montale, je dois me considérer comme chanceux : le mur qui me sépare du reste du monde n’est pas du tout lugubre et impénétrable, au contraire ; il possède de gigantesques portes-fenêtres d’où l’on peut admirer la splendeur d’Assise, un élégant jardin où court un cabot animé du matin au soir et une télévision avec un maxi-écran comme antidote à l’ennui.

Mais rien de tout cela ne peut compenser la distance qui vous sépare de vos proches, les anniversaires non célébrés, le souvenir du meuglement de malaise lors d’une tâche de Latin, les mois passés à planifier en vain les vacances parfaites, le manque de perspective de rencontrer ceux qui ne s’étaient pas vus depuis si longtemps...

Dans cet isolement prolongé, il m’a été particulièrement difficile d’essayer d’entrer en relation avec le monde extérieur, évidemment de manière virtuelle, sans ressentir un fort sentiment d’angoisse et d’oppression, un mélange de malaise et de peur qui me poussent à voir le monde qui m’entoure sous un autre jour, ou plutôt, sous une ombre. On dirait presque que quelqu’un a appliqué un filtre à la réalité, la privant de son éclat naturel, l’enfermant dans une perpétuelle succession d’actions monotones et répétitives, marquée par le tic-tac intolérable d’une horloge.

Plus l’isolement se prolonge, plus ma colère insatisfaite, qui dort placidement dans mon esprit, se réveille de temps en temps, fourre ses griffes et les enfonce dans les faiblesses du malheureux de service. La victime s’avère presque toujours être ma sœur, qui, blessée par le poison de ma méchanceté gratuite, n’a aucune difficulté à m’infliger le même traitement, déclenchant des querelles sans fin destinées à se terminer par la voix autoritaire de mon père. Des dynamiques similaires sont même décrites dans le célèbre roman historique "I Promessi Sposi" (Les fiancés) du grand Manzoni, qui, comparant les coups de bec des têtes des chapons, tenues par les jambes par le protagoniste Renzo, aux hommes qui s’accusent mutuellement, fait remarquer au lecteur qu’en cas de malheur ils ont tendance à tort à abattre un bouc émissaire plutôt qu’à collaborer pour faire face aux adversités du destin.

C’est étrange comme je me suis toujours plainte de ne pas avoir assez de temps pour moi, divisé, dans la vie, entre l’école et la famille, et maintenant, quand je me retrouve enfin à avoir des heures entières entre les mains que je sentais auparavant me glisser entre les doigts, je n’ai pas la moindre idée de comment les utiliser et je suis surprise de voir l’écran de mon smartphone s’ennuyer. Poussé par les exhortations de ma mère, j’ai commencé à exploiter toutes les armes en mon pouvoir, même les plus improbables, pour faire face aux pièges de la quarantaine. Depuis trois bons mois, je m’entraîne une cinquantaine de minutes par jour sur mon vélo d’appartement, qui, en plus de faire souffrir des muscles dont j’ignorais totalement l’existence, me maintient active et me permet de libérer ma dose quotidienne d’intractibilité.

Grâce à la quarantaine, j’ai redécouvert non seulement le plaisir de lire, mais aussi le plaisir d’écrire, en me consacrant à l’écriture de quelques histoires qui sont le fruit de mon imagination et, une fois terminées, en les reliant avec du papier dur décoré à l’aquarelle. Je suis surpris de voir comment, en tenant le stylo plume, tout le monde environnant disparaît et je me retrouve, avec le papier blanc que l’encre arabesque du noir, dans une bulle d’harmonie placide, dans laquelle le temps se dilate pour permettre le flux de la pensée. Quand j’étais enfant, un parent éloigné m’a dit qu’écrire était comme vivre une autre vie, mais je ne suis pas du tout d’accord : écrire, c’est créer une réalité sur mesure, être le marionnettiste dont dépendent les rangs de l’histoire..., écrire, c’est s’échapper de la réalité elle-même, la modifier légèrement ou la bouleverser totalement ; d’ailleurs, je pense que c’est ce qu’il faut pour surmonter une période difficile comme la nôtre.

Lorsque vous êtes enfermé chez vous pendant une longue période, vous avez donc tendance à observer attentivement votre propre univers, surtout l’univers intérieur, que je néglige beaucoup parce qu’il est sous-estimé ou, beaucoup plus probablement, parce qu’il est craint. En regardant avec hésitation le panorama de mon monde intérieur, j’ai remarqué exactement ce à quoi je voulais échapper : la fille qui tombe. Cette dernière, Marta, est la protagoniste de l’histoire homonyme de Dino Buzzati, dans laquelle l’auteur exploite la chute métaphorique d’un gratte-ciel d’une jeune et belle fille pour offrir au lecteur un petit échantillon de l’existence humaine.

Je ne comprends toujours pas comment ces quatre pages ont réussi à me faire réaliser ce qu’en quinze ans de vie je n’avais pas encore pu comprendre sur moi-même, ou peut-être que j’ai refusé de comprendre. Chacun d’entre nous dans sa propre vie fait des choix, discutables ou non, dont dépendra notre avenir et c’est de ces mêmes choix que sera construit notre "moi" de demain, avec ses défauts, ses mérites et sa personnalité. Le gratte-ciel de la vie est un repaire d’innombrables occasions, que Marta refuse ponctuellement de saisir, en raison de sa hâte d’atteindre un but impossible.

Moi aussi, comme le protagoniste de l’histoire, j’ai souvent refusé d’interrompre ma chute du gratte-ciel pour prendre un petit verre en compagnie sur l’occasion du balcon, j’ai refusé les invitations à de petites fêtes qui n’étaient que des prétextes pour faire connaissance, j’ai ignoré les avertissements de ceux qui me conseillaient de ne pas tant me presser, que j’aurais eu toute ma vie devant moi. Ce n’est que maintenant que je sens le fiel du regret dans ma bouche : quelqu’un sera-t-il encore prêt à arrêter mon vol fou pour une soirée ensemble ? Y aura-t-il encore un jeune homme grand, sombre et très distingué qui, ayant gagné ma sympathie, me tendra les bras pour me saluer ? Aurai-je un jour quelqu’un avec qui rire et arrêter de flotter de la falaise ?

Le poids de ces mille questions pèse sur mes épaules, tout comme celui de la conscience nouvellement acquise que je suis la cause même de mon mal ; je sens le souffle glacé de la peur, la seule émotion devant laquelle les certitudes vacillent et les pensées s’entassent dans mon esprit, obligeant ceux qui la ressentent, pour citer Leopardi, à s’y noyer.

"Les occasions ne sont jamais perdues, elles peuvent ne jamais revenir", me fait entendre la voix de Petra Conti, première ballerine du Teatro La Scala. J’ai eu peur et ce n’est qu’après que je me suis rendu compte que j’avais perdu un temps précieux, un temps que j’aurais passé, à pouvoir rentrer, à sortir un après-midi avec mes amis, au lieu de rester à la maison pour ne pas manquer un épisode de ma série préférée ; à aller à la piscine avec Marta et Chiara, au lieu d’inventer n’importe quelle excuse au prix de ne pas leur laisser voir mes grosses jambes gainées de shorts ; à apprendre le russe avec mon amie Ala, qui trop souvent ne reçoit de moi que des regards suffisants.

Je repense donc au dernier verset de "Meriggiare pallido e assorto", au mur qui m’avait tant laissé perplexe, et je me rends soudain compte que j’en étais moi-même l’auteur, que je l’ai construit autour de moi comme un bouclier contre le monde extérieur, contre le jugement des autres, les défis de tous les jours et surtout la peur de ne pas être à la hauteur. Enfermée dans mes murs de confiance, j’avais construit tout mon monde, où rien ne pouvait aller mal ou être mal. Mais lorsque le monde, le monde réel, s’est arrêté pour un mal invisible, éliminant tout contact qu’il essayait d’établir avec mon petit univers, bien que l’isolement soit ce que j’avais toujours voulu, je me suis senti perdue, perdue.

À mon avis, la vie ne consiste pas à marcher le long d’un mur que l’on a l’illusion de ne pas pouvoir franchir, mais à le franchir avec toute la force et la détermination dont on est capable ; ce n’est qu’ainsi que l’on pourra sortir de son propre coin de sécurité, devenu une prison, pour connaître les joies et les peines que l’existence nous réserve, comme le dit le célèbre écrivain britannique Neal Donald Walsh avec la phrase "La vie commence quand vous êtes hors de votre zone de confort". Grimper par-dessus le mur pour ne pas violer une interdiction, ou pire, pour afficher sa force aux yeux de tous, mais pour prendre le bon chemin pour soi-même et encourager les autres à faire de même. Bien sûr, tout le monde n’entreprendra pas cette escalade infranchissable de la même manière : certains franchiront le mur d’un seul bond, d’autres l’escaladeront tremblants et effrayés, d’autres encore s’appuieront sur la solidité d’une bonne prise en main pour faciliter leur ascension.... 

Moi aussi, je compte bien trouver enfin l’enthousiasme nécessaire pour franchir le mur, et j’espère vraiment que, lorsque l’exploit sera terminé, je serai fière de m’exposer à moi-même, qui aspire tant aux blessures infligées par les tessons d’une bouteille.

 

METÁFORAS

"Y yendo hacia el sol que deslumbra para sentir con tristeza cómo es toda su vida y su calvario siguiendo una pared que tiene fragmentos de una botella en la parte superior". Aunque yo mismo siempre había estado muy en contacto con las palabras de Eugenio Montale, no había podido hacer lo mismo con los últimos versos de "Meriggiare pallido e assorto" (A la sombra, descansar al mediodía, pálido y absorto), que me parecieron desde el principio mucho más enigmáticos y controvertidos que los de otras obras que salieron de la pluma del mismo autor. Fui incapaz de abrazar la visión que el poeta me daba de la vida, describiéndola como la perenne que bordea un muro imposible de cruzar: nunca hubiera imaginado que ese mismo muro, fuente de mil perplejidades hasta ese momento, se transformaría para mí en el perímetro de los muros del hogar en tiempo de cuarentena.

Así como Montale se vio obligado a caminar a lo largo de un límite infranqueable, percibido como un presagio de peligro y sufrimiento, ahora yo y todos mis contemporáneos nos encontramos confinados en nuestros hogares, donde encontramos refugio de la tormenta de contagio de Covid-19. Sin embargo, comparado con Montale, debo considerarme afortunada: el muro que me divide del resto del mundo no es en absoluto sombrío e impenetrable, al contrario; tiene gigantescas ventanas francesas desde las que se puede admirar el esplendor de Asís, un elegante jardín en el que un alegre chucho corre de la mañana a la noche y un televisor con una maxipantalla como antídoto al aburrimiento.

Pero nada de esto puede compensar la distancia de sus seres queridos, los cumpleaños no celebrados, el recuerdo del mugido de la incomodidad durante una tarea de latín, los meses pasados planeando en vano las vacaciones perfectas, la falta de perspectiva de conocer a aquellos que no habían visto durante tanto tiempo ...

En este prolongado aislamiento me resultaba particularmente difícil tratar de relacionarme con el mundo exterior, obviamente de manera virtual, sin sentir una fuerte sensación de angustia y opresión, una mezcla de incomodidad y miedo que me llevaba a ver el mundo que me rodeaba bajo una luz diferente, o más bien, bajo una sombra. Casi parece como si alguien hubiera aplicado un filtro a la realidad, privándola de su brillo natural, encasillándola en una perpetua sucesión de acciones monótonas y repetitivas, marcadas por el intolerable tictac de un reloj.

Cuanto más tiempo dure el aislamiento, más mi ira insatisfecha, que duerme plácidamente en mi mente, se despierta de vez en cuando, envaina sus garras y las empuja a las debilidades de los desafortunados de turno. La víctima casi siempre resulta ser mi hermana, que, herida por el veneno de mi maldad gratuita, no tiene ninguna dificultad en darme el mismo tratamiento, desencadenando interminables peleas destinadas a terminar con la voz autoritaria de mi padre. Una dinámica similar se describe incluso en la famosa novela histórica "I Promessi Sposi" (Los Novios) del gran Manzoni, quien, comparando los picoteos de las cabezas de los capones, sostenidos por las piernas del protagonista Renzo, con los hombres que se culpan entre sí, señala al lector que en caso de desgracia tienden erróneamente a matar a un chivo expiatorio en lugar de colaborar para hacer frente a las adversidades del destino.

Es extraño cómo siempre me he quejado de que no tengo suficiente tiempo para mí, dividido, en la vida, entre la escuela y la familia, y ahora, cuando por fin me encuentro con horas enteras en mis manos que antes sentía que se me escapaban de las manos, no tengo la menor idea de cómo usarlas y me sorprende ver la pantalla de mi smartphone aburrida. Impulsada por las exhortaciones de mi madre, empecé a explotar todas las armas en mi poder, incluso las más improbables, para enfrentar los peligros de la cuarentena. Durante los últimos tres buenos meses he estado practicando unos cincuenta minutos al día con mi bicicleta estática, que, además de hacer músculos doloridos cuya existencia ignoré totalmente, me mantiene activa y me permite descargar mi dosis diaria de intratabilidad.

Gracias a la cuarentena he redescubierto no sólo el placer de la lectura, sino también el placer de la escritura, dedicándome a escribir algunos cuentos fruto de mi imaginación y, una vez terminados, encuadernándolos en papel duro decorado con acuarela. Me sorprende cómo, sosteniendo la estilográfica, todo el mundo circundante desaparece y me encuentro, junto con el papel blanco que la tinta arabesca de negro, en una burbuja de plácida armonía, en la que el tiempo se dilata para permitir el flujo del pensamiento. Cuando era niña un pariente lejano me dijo que escribir era como vivir otra vida, pero no estoy en absoluto de acuerdo: escribir es crear una realidad a medida, ser el titiritero del que dependen las filas del cuento..., escribir es escapar de la realidad misma, hacer una ligera modificación o trastornarla totalmente; además, creo que es lo que hace falta para superar un período difícil como el nuestro.

Cuando estás encerrado en casa por un largo período de tiempo, entonces, tiendes a observar cuidadosamente tu propio universo, especialmente el interno, muy descuidado por mí porque es subestimado o, mucho más probable, porque es temido. Mirando vacilantemente el panorama de mi mundo interior, me di cuenta de lo que quería escapar: la chica que cae. Esta última, Marta, es la protagonista del cuento homónimo de Dino Buzzati, en el que el autor explota la metafórica caída desde un rascacielos de una joven y hermosa niña para ofrecer al lector una pequeña muestra de la existencia humana.

Todavía no entiendo cómo estas cuatro páginas han conseguido que me dé cuenta de lo que en quince años de vida todavía no había sido capaz de entender sobre mí misma, o tal vez me negué a entender. Cada uno de nosotros en nuestra propia vida hace elecciones, cuestionables o no, de las que dependerá nuestro futuro y es de esas mismas elecciones que se construirá nuestro "yo" de mañana, con sus defectos, sus méritos y su personalidad. El rascacielos de la vida es una guarida de innumerables ocasiones, que Marta se niega puntualmente a captar, debido a su prisa por alcanzar una meta imposible.

Yo también, como el protagonista de la historia, a menudo me he negado a interrumpir mi caída del rascacielos para disfrutar de una pequeña bebida en compañía en el balcón oportunidad, decliné invitaciones a pequeñas fiestas que eran sólo pretextos para conocerse, ignoré las advertencias de los que me aconsejaron no apurarme tanto, que habría tenido toda mi vida por delante. Sólo ahora siento la hiel del arrepentimiento en mi boca: ¿alguien volverá a estar dispuesto a detener mi loco vuelo para pasar una noche juntos? ¿Habrá todavía un joven alto, moreno y muy distinguido que, habiéndose ganado mi simpatía, extenderá sus brazos para saludarme? ¿Tendré alguna vez alguien con quien reírme y dejar de flotar por el acantilado?

El peso de estas mil preguntas pesa sobre mis hombros, así como el de la recién adquirida conciencia de que soy la causa misma de mi mal; siento el aliento helado del miedo, la única emoción ante la cual las certezas vacilan y los pensamientos se apelotonan en mi mente, obligando a quienes lo sienten, para citar a Leopardi, a ahogarse en él.

"Las oportunidades nunca se pierden, pueden no volver nunca más", acaricia en mi mente la voz de Petra Conti, primera bailarina del Teatro La Scala. Tenía miedo y sólo después me di cuenta de que había perdido un tiempo precioso, el tiempo que habría gastado, pudiendo volver, salir una tarde con mis amigos, en lugar de quedarme en casa para no perderme un episodio de mi serie favorita; ir con Marta y Chiara a la piscina, en lugar de inventar cualquier excusa a costa de no dejarles ver mis gordas piernas enfundadas en pantalones cortos; aprender ruso con mi amiga Ala, que demasiado a menudo sólo recibe de mí las miradas petulantes.

Y así pienso en el último verso de "Meriggiare pallido e assorto", en el muro que tanto me había dejado perpleja, y de repente me doy cuenta de que yo misma era el autor, que lo había construido a mi alrededor como un escudo contra el mundo exterior, contra el juicio de los demás, los retos de cada día y sobre todo el miedo a no estar a la altura de ellos. Encerrada entre mis muros de confianza había construido todo mi mundo, donde nada podía ir mal o estar mal. Pero cuando el mundo, el mundo real, se detuvo por un mal invisible, eliminando cualquier contacto que intentara establecer con mi pequeño universo, aunque el aislamiento era lo que siempre había querido, me sentí perdida, perdida.

En mi opinión, la vida no consiste en caminar a lo largo de un muro que uno tiene la ilusión de no poder traspasar, sino en traspasarlo con toda la fuerza y determinación de la que uno es capaz; sólo así podrá uno salir de su propio rincón seguro, que ahora se ha convertido en una prisión, para experimentar las alegrías y las penas que la existencia nos reserva, como dice el famoso escritor británico Neal Donald Walsh con la frase "La vida comienza cuando uno está fuera de su zona de confort". Escalar el muro no para violar una prohibición, o peor aún, para hacer alarde de la propia fuerza a los ojos de todos, sino para tomar el camino correcto para nosotros mismos y animar a otros a hacer lo mismo. Por supuesto que no todos emprenderán esta infranqueable escalada de la misma manera: algunos saltarán la pared de un solo salto, otros la escalarán temblando y asustados, otros se apoyarán en la solidez de un buen asidero para facilitar su ascenso... 

Yo también cuento con encontrar finalmente el entusiasmo necesario para superar el muro, y espero realmente que, cuando la hazaña termine, estaré orgullosa de exhibirme a mí misma, que tanto anhela las heridas infligidas por los afilados fragmentos de una botella.